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De Lubac legge la “Dei Verbum”

Un maestro spiega come leggere la Scrittura

abstractHenri de Lubac, who dedicated the "Medieval exegesis" to sacred writing, underlined the importance of the conciliatory constitution "Dei Verbum", which rediscovers the original idea of revelation as revelation not of several "articles of faith", atomically conceived, but of the living Person of the Incarnate Verb. Believing does not mean adhering to many fragmented truths, but in the presence of Christ.Henri de Lubac, che ha dedicato alla Sacra Scrittura la poderosa “ Esegesi medioevale”, ho sottolineato l'importanza della costituzione conciliare “Dei Verbum” che recupera l'idea originaria della Rivelazione come rivelazione non di tanti “articoli di fede”, atomicamente concepiti, ma dell'unica Persona del Verbo incarnato. Per cui credere non è aderire a tante verità frammentate, ma aderire alla Presenza di Cristo, il Verbo fattosi carne.

Pubblicato su Communio, n. 87 [1986], pp. 60/67, col titolo “H. de Lubac, un maestro per leggere la «Dei Verbum»”. I sottotitoli sono aggiunte successive.

introduzione

L’opera di De Lubac più conosciuta, a riguardo della S. Scrittura, è senza dubbio Esegesi medioevale. È inutile insistere sulla grande importanza e sui notevoli pregi di tale fatica, straordinariamente abbondate di riferimenti bibliografici.

Rileviamo soltanto come uno dei suoi meriti sia stato l’aver immesso, nel panorama dell’esegesi biblica cattolica, che a partire dai decenni centrali del il XX secolonostro secolo andava sviluppandosi, quell’esigenza di afflato spirituale che deve permearne la pur necessaria dimensione «scientifica».

Ma in questo breve saggio vorremmo concentrare l’attenzione su un altro testo del padre De Lubac, meno conosciuto benché sicuramente degno di considerazione.

Intendiamo dire il commento alla Costituzione «Dei Verbum», apparso in francese col titolo La révelation divine [1] e recentemente rieditato, con rifusioni ed aumenti, dalla Jaca Book, come prima parte del volume La Rivelazione divina e il senso dell’uomo [2].

Se in Esegesi medioevale abbiamo l’opera dello studioso, che con instancabile acribia spiega e fornisce il fondamento storico-dottrinale, p. 60 qui abbiamo soprattutto la preoccupazione del pastore, che ha a cuore il modo con cui i cristiani devono accostare la Parola di Dio.

De Lubac ebbe modo di seguire personalmente i lavori della Commissione conciliare che elaborò la «Dei Verbum», e delle vicende di essa egli ci fornisce un dettagliato resoconto.

Senza entrare nei particolari, ricordiamo che, anche a riguardo di questo tema (la Rivelazione e la Sacra Scrittura) vi fu, all’interno del Concilio Vaticano II, un confronto tra la precedente concezione «neo-tomistica» e le nuove istanze che per brevità potremmo chiamare «neo-patristiche» o «esistenziali».

Non era ancora apparsa all’orizzonte, a proposito della tematica in questione, una terza impostazione, che superasse, per così dire «a sinistra» le due summenzionate. O, almeno, secondo quanto attesta De Lubac essa, se esisteva, non era operante nell’ambito conciliare.

la situazione precedente il Concilio

Quali erano dunque i profili delle due impostazioni teologiche? Il neotomismo dava un notevole peso all’ordine «naturale» [3] e, parallelamente, alla ragione, soprattutto nella sua dimensione analitica e raziocinante.

Esso tendeva quindi da un lato a vedere l’Evento di Gesù Cristo come situato in un segmento storico-geografico circoscritto, e non come altresì permeante di sé l’intero cosmo e l’intera storia. L'ordine naturale era divenuto così, per i neotomisti, una «natura pura», un livello a sé stante, separato e autonomo dal livello soprannaturale.

D'altro lato la ragione analitica, forte della sua capacità di dimostrare con certezza l’esistenza di Dio e gli altri «preambula fidei», applicandosi al Dato rivelato per costruire una teologia, tendeva a scomporre il Mistero secondo una sistematicità razionale non di rado irrispettosa della specificità di Quello [4].

Cosa importava tutto ciò a riguardo della concezione della Rivelazione e della Scrittura?

La Bibbia veniva considerata prevalentemente come narrazione, per quanto ispirata da Dio stesso, di una serie di avvenimenti storici (sto- p. 61 rico-salvifici) sicuramente soprannaturali, circoscritti in una precisa epoca del passato.

Prevaleva così, fino a diventare esclusiva, l’attenzione al senso letterale, storico. Si capisce come questa accentuazione esegetica fosse connessa con una dogmatica che sottolineava la natura umana di Gesù, e il valore prevalentemente espiativo del sacrificio della Croce. La Croce in tale ottica era vista soprattutto come la riparazione dei peccati dell'umanità, in Gesù, Uomo perfetto, piuttosto che come la manifestazione dell’amore infinito del Dio trinitario, in Cristo, Verbo eterno.

Come pure vi era una connessione con la spiritualità, più concepita in termini di ascesi, ascesa faticosa verso Dio, che in termini di adesione al Dio disceso incontro all'uomo. La «natura», infatti, in tutti e tre i casi resta normativa e non viene,in fondo, trasfigurata sostanzialmente: Dio entra, sì, nella storia, ma in un certo senso seguendo una logica naturalmente, razionalmente, comprensibile (offesa/riparazione della offesa); l’uomo è bensì aiutato dalla grazia[5], ma è soprattutto alle energie della volontà razionale che egli deve fare appello per tendere alla perfezione; gli avvenimenti salvifici sono, sì, raccontati su ispirazione dello Spirito Santo che ne attesta l’indiscutibile veridicità, ma la loro narrazione non differisce da qualsiasi altro (naturale!) racconto di fatti accaduti.

Sempre dall’intendere la Sacra Scrittura esclusivamente nel suo senso storico-letterale discendeva una considerazione piuttosto analitica che sintetica della verità rivelata, come una molteplicità di cui non si riesce a cogliere il senso unitario.

Come appare anche dagli interventi, nella commissione conciliare, dei vescovi e dei teologi legati all’impostazione neotomista, si concepiva il Dato rivelato come un insieme di verità, su Dio e sulla nostra salvezza in Cristo Gesù. Così che la teologia finiva per frantumarsi, con una «atomizzazione in articoli privi di legame con un centro vivente» [6] per usare un'espressione del padre Congar.

In tale situazione, riduttiva dell’integrale valore della Scrittura e dell’unità vivente della Verità rivelata in una molteplicità di verità- «atomiche», la stessa autorità del Magistero (peraltro fondamentale e p. 62 irrinunciabile per De Lubac) veniva assumendo accentuazioni falsanti. Infatti molta manualistica teologica presentava le cose come se l’atto di fede terminasse alle molte verità, proposte dal Magistero ecclesiale, anzi in quanto proposte da esso. Dimenticando così che la fede è fede nella vivente Verità che è il Cristo, e che il credito che il cristiano presta all’autorità della Chiesa è motivato proprio dall’essere questa il segno e il sacramento della presenza del Signore: non si crede, propriamente, alla Chiesa, si crede a Gesù Cristo, Figlio di Dio, nella e attraverso la Sua Chiesa.

la novità apportata con la Dei Verbum

Se questa, a grandi linee, era la concezione prevalente fino al Concilio, l'elaborazione della «Dei Verbum», senza rinnegare nulla di quanto di positivo era in quella, segna l'emergere di un nuovo, ma al tempo stesso più tradizionale[7], modo di considerate la Rivelazione e la Sacra Scrittura.

In generale non è azzardato dire che l’orizzonte in cui si muove tale elaborazione è nettamente cristocentrico. Il Cristo non viene più considerato prevalentemente nella sua dimensione umana, ma come l’Alfa e l’Omega, come il cuore e il centro del creato, il Verbo in cui tutto è stato fatto. Da ciò segue, in merito al tema della Rivelazione, che Egli non viene più visto soprattutto e soltanto come Colui che rivela una serie di verità, riguardanti Dio e la nostra salvezza, verità contenute nella Scrittura e nel Vangelo in specie, ma in fondo staccabili dal testo sacro per essere rifuse nella teologia, analitica e sistematica.

Così capitava di leggere nella Apologétigue (opera diretta da M. Nédoncelle, edita a Parigi nel 1948), alla voce sulla Rivelazione: «Il Maestro parlava a delle folle mal preparate alla speculazione filosofica (...) e si sforzava di adattare il suo insegnamento (...). Sarebbe venuto il momento in cui la teologia, dominando questo dato vivente e concreto, ne avrebbe tratto delle formule ed avrebbe dato alla dottrina (...) una espressione astratta».

Cristo, infatti, è al tempo stesso, in quanto Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre», il Rivelatore e il Rivelato, la Parola che parla e la Parola di cui si parla. Egli non solo espone, ma è la Verità: è contemporaneamente il messaggero e il contenuto del messaggio, il ri- p. 63 velatore e il rivelato: il rivelatore al quale bisogna credere, la verità personale rivelata nella quale bisogna credere» [8].

È proprio in ciò la differenza tra la Rivelazione cristiana e le religioni positive. Citando padre Pierre Rousselot, De Lubac nota che «il cristianesimo è la sola» religione «la cui Rivelazione (...) si incarna in una persona che non solamente trasmette una dottrina, ma si presenta essa stessa come la verità(...). Maometto, il Budda o Zoroastro (...) predicano una dottrina in qualche modo esterna alla loro propria persona (...). Gesù è il Maestro che propone se stesso come oggetto della nostra fede» [9].

Dalla focalizzazione di questo aspetto, trascurato nei secoli moderni, discendono importanti conseguenze. Anzitutto il superamento di una nozione intellettualistica della Rivelazione: se il Cristo non è solo il Rivelatore, ma altresì il Rivelato, non solo le sue parole, ma anche le sue azioni e la sua stessa Persona sono il contenuto della Rivelazione.

Nella Sua Persona «sintetica» si concentra e si unifica ogni verità: tutto in Lui, parole e gesti, rivela il Tutto Unitrinitario [10].

Per capire come ciò fosse tutt’altro che scontato basti leggere il seguente passo di uno schema preparatorio alla discussione conciliare («De Deposito fidei»): «il motivo del credere è riposto nella stessa dottrina del Cristo [sottolineatura nostra, come le successive]. Perciò non si può accettar per vero che la fede (...) sia poggiata primariamente su un’esperienza con cui si percepirebbe la verità di tutto il mistero di Cristo e, in esso, di ogni realtà rivelata» e ancora: «la Rivelazione è un discorso, con cui Dio (...) ha reso testimonianza certa ai misteri e alle verità della salvezza...»[11].

Da ciò, ancora, scaturiscono due fondamentali, e complementari, precisazioni. L’una in un certo senso relativizza la Sacra Scrittura, l’altra ne fissa il valore incomparabile. In primo luogo infatti l'aver attri- p. 64 buito a Cristo stesso, all’Evento integrale (parole ed opere) di Gesù Cristo, la pienezza della Rivelazione, getta nuova luce sulla questione cosiddetta delle «due fonti», Scrittura e Tradizione. Propriamente parlando, infatti, non vi è che una Fonte della Rivelazione, Cristo stesso nella sua interezza: «il Cristo (inviato di Dio, mediatore) è la Fonte della Rivelazione, e la Rivelazione del Cristo, nella sua pienezza, è la Fonte di tutta la vita cristiana» [12].

Perciò la Sacra Scrittura non coincide con la Rivelazione; essa ne è, piuttosto, testimone [13]. Perciò ancora, a differenza del protestantesimo, il Concilio ribadisce nella «Dei Verbum» che la Bibbia deve essere letta nella Chiesa, avvalendosi della Tradizione ecclesiale.

Come infatti è un Evento ciò che è testimoniato nella Bibbia, così solo all’interno dell’Evento ecclesiale, prolungamento storico del Cristo, se ne può comprendere l’intimo significato.

«Tradizione e Scrittura sono «strettamente congiunte», provenendo dalla medesima sorgente, tendendo al medesimo fine, e formando talmente un sol tutto che la Chiesa non potrebbe ottenere la certezza su tutti i punti rivelati ricorrendo alla sola Scrittura: per ascoltare la Parola di Dio e comprenderla, occorre porsi nella luce della Tradizione» [14].

Ancora, «il cristianesimo non è, propriamente parlando, una religione del Libro: è la religione della Parola, ma non unicamente né principalmente della Parola nella sua forma scritta, orale.È la religione del Verbo «non di un verbo scritto e muto», dice S. Bernardo, «bensì del Verbo incarnato e vivente» [15].

E il Verbo vive nella Chiesa, per cui, se «da un certo punto di vista si può dire che la Scrittura giudica la Chiesa, è altresì vero che essa appartiene alla chiesa» [16].

D'altra parte, se la «Dei Verbum», distanziandosi da molto protestantesimo, àncora la Scrittura alla Rivelazione, che è l’Evento totale di Cristo, non ne sminuisce perciò il grande valore. Anzi, proprio la rivalutazione della centralità dell’Avvenimento storico e concreto della rivelazione, attestato anzitutto dalla stessa Scrittura e comprensibile p. 65 dentro la vivente Tradizione ecclesiale, proprio tale rivalutazione suona come invito alla teologia a non privilegiare i propri schemi sistematici e razionali, volgendosi il più possibile al Testo sacro.

È questo un discorso che nel commento alla «Dei Verbum» viene appena abbozzato, ma che aveva ricevuto in Esegesi medioevale un abbondante e compiuto sviluppo: è la Scrittura, in quanto contiene, ed è in qualche modo la Parola stessa di Dio, il Verbo, è la Scrittura il centro dell’intelligenza cristiana.

In questo senso la Scrittura, Parola di Dio e in qualche modo, come affermava Origene, Corpo di Cristo, è una modalità di presenza del Verbo, Gesù Cristo, superiore alla stessa Eucarestia: «Poiché il ‘corpo’ (sacramentale) per quanto reale, non è la divinità stessa (...) resta sempre il simbolo di una realtà più spirituale; mentre d’altra parte la ‘parola’ nella sua essenza è questa realtà stessa, poiché il Figlio di Dio, Dio stesso, è ‘parola’ che prende corpo nella parola parlata della Scrittura così come nell’Eucarestia» [17].

La Scrittura non è dunque soltanto un libro sulla storia accaduta, sul Cristo, ma in qualche modo è essa stessa, in quanto realtà vivente, un fatto che opera salvezza, essa stessa è, misteriosamente, sostanziata del Cristo. Da essa il cristiano può attingere ciò che è accaduto (senso storico-letterale), come pure il suo significato simbolico (senso allegorico), la sua indicazione morale e il suo valore di prefigurazione dell'Eschaton. Il tutto riverberante l’unità del medesimo Verbo.

Anche nel la Rivelazione divina, tuttavia, De Lubac, contro ogni riduzionismo naturalistico, afferma il carattere divino della Bibbia: non solo in quanto divinamente ispirata, ma perché intrinsecamente essa contiene, misteriosamente, Cristo stesso.

Egli ricorda a questo riguardo lo stesso S. Tommaso d’Aquino: «Sacra Scriptura est cor Christi, quia manifestat illud» [18]. Come pure rammenta l’usanza di molti Concili, da quello di Efeso nel 431 [19] al Vaticano II di porre il Vangelo su un trono, in posizione preminente e regale [20]: «il Vangelo è il Cristo», affermava Amalario di Lione, nel p. 66 IX secolo [21]. Non si può dunque accostarsi alla Scrittura con atteggiamento prevalentemente critico-scientifico. A nulla valgono gli sforzi delle discipline storico-positive, se essi non sono ricompresi in uno spirito di obbedienza filiale e di fede. Riportiamo,come sintesi conclusiva, il giudizio complessivo del padre De Lubac sulla costituzione «Dei Verbum».

«Uno dei suoi principali meriti è che essa riconduce tutto all’unità. Unità del Rivelatore e del Rivelato, Gesù Cristo ‘autore e consumatore della nostra fede’; unità in Lui dei due Testamenti, che gli rendono testimonianza; unità della Scrittura e della Tradizione, mai separabili; unità, esposta nell’ultimo capitolo, del Verbo di Dio nelle due forme attraverso cui si rende presente in mezzo a noi: la Scrittura e l’Eucarestia»[22].

Francesco Bertoldi, nato nel 1958, si è laureato in filosofia con una tesi sulla modernità in H. De Lubac, presso l’Università Cattolica di Milano. Attualmente insegna filosofia nelle Scuole Superiori. È pure ricercatore dell’Istituto di Studi perla Transizione (ISTRA).

note


[1] Nel 1968,per i tipi delle edizioni Du Cerf.

[2] Titolo, ovviamente, scelto dallo stesso cardinal De Lubac, a cui va pure la decisione di unire in un solo volume il commento alla Dei Verbum e Ateismo e senso dell’uomo, precedentemente tradotto in italiano dalla Cittadella, di Assisi, nel 1968. Il nuovo libro è del 1985.

[3] Occorre dire che qui si intende natura in senso teologico,opposta quindi a «grazia» e non a «spirito» o a «cultura»?

[4] Va detto comunque che lo stesso Jacques Maritain, tomista convinto («iper-tomista», secondo Maurice Blondel), non esitava a denunciare i limiti e i rischi di una teologia razionalistica; cfr. I gradi del sapere, tr. il.Morcelliana, Brescia 1974, pp, 295 segg.

[5] Significativa è la definizione tomista della grazia,peraltro irrinunciabile sotto certi aspetti ma complementarmente ad altre definizioni, come realtà accidentale della sostanza-anima: cfr. Rondet, La grazia di Cristo, tr. it. Città Nuova,

[6] Y.M.Congar, “Le Christ dans l’Economie salutaire et dans nos traités dogmatiques”,in Concilium I (1966), p. 24 (trad. ns.).

[7] Nel senso con cui De Lubac intende il termine Tradizione, come vivente organismo in cui, nei secoli, alberga l’unica Verità del Cristo, e in particolare coloro che, in obbedienza alla Chiesa e a Pietro, unendo santità e dottrina, illustrano con speciale efficacia il Mistero cristiano.

[8] H. De Lubac, Rivelazione divina e senso dell’uomo, tr. it. Jaca Book 1985, p. 33.

[9] Citato da De Lubac in Rivelazione Divina..., p. 34. Tale discorso di Rousselot è tradotto in italiano nella Storia delle religioni, ed.Paoline, Roma 1968, vol. III, pp. 285 sgg.

[10] H. De Lubac, ibid., pp. 27-31. Cfr. p. 29, già nell’Antico Testamento la «Parola di Dio compie infallibilmente ciò che dice; essa è nello stesso tempo creatrice e interprete della storia».

[11] Dalle proposizioni 20° e 17° dello schema «De Deposito Fidei», citato da De Lubac a pp.140-141 de La Rivelazione Divina...

[12] H. De Lubac, ibid., p. 182.

[13] Cfr, J. Ratzinger, «La fonte della fede», appendice al testo citato di De Lubac,p. 193 sgg.

[14] H. De Lubac, ibid., p.178.

[15] De Lubac, ibid., pp.164-165.

[16] Ibidem.

[17] H. De Lubac, Histoire et Esprit, Paris 1950 (trad. ns.) p. 366. Trad. ital. Storia e Spirito, Jaca Book, Milano 1984.

[18] Cit. da De Lubac, op.cit., p. 169.

[19] Negli atti del Concilio di Efeso si legge: «Posto al centro del trono, il santo Vangelo indicava la presenza di Cristo stesso», cita De Lubac, a p. 171 del La Rivelazione..., cit.

[20] De Lubac,ibid., p. 170.

[21] De Lubac, ibid., p. 171.

[22] De Lubac, La Rivelazione..., cit, p.179.